Conoscersi per dialogare



Un amico musulmano recentemente parlava di un meeting interreligioso al quale ha partecipato a Loppiano, terra dei focolarini. “E’ incredibile - diceva un uomo italiano a questo incontro rivolgendosi a un magrebino- Gli stessi problemi che hai con tua moglie sono gli stessi che ho io con la mia”. Mi colpisce lo stupore “infantile” e l’eccitazione di quell’espressione. Se non ci fosse stato quell’incontro probabilmente quel signore italiano avrebbe mantenuto o rinforzato un’idea vaga, superficiale e generalista sui “musulmani”, come se fossero parallele ed equidistanti, non convergenti, non paragonabili le esperienze umane condotte su strade diverse e con orizzonti diversi.
Situazioni come questa confermano come, per quanto arriviamo a comprendere con la razionalità che siamo tutti esseri umani portatori della stessa dignità e di diritti umani, è solo con l’incontro personale, la presenza fisica, l’ascoltarsi e il condividere tempo e spazio che alimentiamo veramente la conoscenza reciproca, il rispetto, e una certa complicità.
Se questo principio si riscontra nelle relazioni interpersonali in generale, a maggior ragione vale nelle relazioni fra persone di differenti culture e religioni.
Una volta una studentessa, a fine anno accademico, mi ringraziò perché con il corso su “Comunicazione interculturale e interreligiosa” aveva abbattuto molti pregiudizi e si era posta su un piano diverso nei confronti dell’alterità. Era una donna di circa cinquanta anni che a lungo aveva mantenuto un atteggiamento di paura e timore verso gli “stranieri” non sentendo l’esigenza di avvicinarsi, di interrogarsi più di tanto. Mi raccontava onestamente come avesse trasmesso questo atteggiamento ai suoi figli e ne era profondamente dispiaciuta. Pochi incontri approfonditi con testimonianze dirette di quegli “stranieri” che temeva sono bastati per farle cambiare attitudine e per creare uno stimolo verso la novità, un atteggiamento fresco e giovane verso il diverso, senza la paura, fondamentalmente, di perdere qualcosa dei suoi principi, della sua storia, della sua religione. E’ bastato poco, dopotutto.
Si mostra quindi fondamentale non fermarsi alla politica in senso stretto, ai progetti istituzionali, pur sempre fondamentali. Occorre formare e formarsi “dal basso”. E’ necessario pertanto moltiplicare le occasioni per stare insieme, per rafforzare la predisposizione al dialogo di una generazione che si definisce “moderna” ma che continua a faticare nelle relazioni interpersonali perdendo in freschezza e senso pratico. In un’era come la nostra di globalizzazione e mutamento dei confini irreversibile, è necessario coltivare una sana curiosità per formarci a una matura relazione con l’alterità. Ed è pure fondamentale riconoscere i propri limiti, i propri pregiudizi, le aspettative che ci muovono.
Da anni ormai organizzo il Festival Nazionale delle Culture, che mi ha offerto occasioni preziose per crescere e maturare tramite esperienze interculturali e interreligiose di alto valore umano oltre che culturale.
Non tutti hanno avuto la fortuna che ho avuto io di conoscere persone così ricche, con storie incredibili alle spalle, meravigliosamente diverse per radici culturali, lingua, religione, formazione, abitudini alimentari, abbigliamento.
Tutte queste persone sono diventate nel tempo amiche, persone capaci di gettare una luce tutta speciale sulle vicende della vita.
Penso a Jaya, la mia carissima amica induista, che sempre prega per me e la mia famiglia. Con grande tenerezza ha sempre conservato un atteggiamento protettivo nei miei confronti stimolandomi con una saggezza tutta orientale a non demordere di fronte alle difficoltà. Ricordo ancora il primo invito nel suo appartamento quando, dopo avermi fatto togliere le scarpe, mi ha mostrato con commozione l’altare sacro che ha in cucina. Tornate in salotto si mise a parlare del più e del meno e di suo figlio come qualunque mamma italiana.
Penso a Silvia, la mia amica della comunità ebraica fiorentina, professoressa eccellente sempre impegnata per educare i giovani al rispetto reciproco e a costruire con i suoi progetti accademici un clima di pace in Israele e Medio Oriente. Una persona dalla squisita sensibilità che per festeggiare l’inaugurazione di una mostra mi ha portato il pane del sabato. Un gesto semplice di grande valore simbolico e affettivo per me.
Penso ad Aisha, la mia amica musulmana di Milano, che con una dolcezza infinita e grande intelligenza mi ha parlato di dialogo e dell’amore di Dio mostrando un Islam troppo spesso taciuto. 
Penso a Dorit, la mia straordinaria amica buddista, tanto generosa e “visionaria”, sempre sincera e squisitamente onesta. Per lei il pluralismo è una missione e continua a insegnarmi con gesti semplici come sia possibile e bello volersi bene conservando la propria eredità culturale e religiosa. Una volta mi portò un omaggio da Israele, un regalo pensato apposta per me che sono cristiana, ovvero una bottiglietta con la terra Santa. 
Penso a Kossi, medico e scrittore del Congo, capace di ironizzare con raro acume e spirito costruttivo su razzismi e fraintendimenti culturali. Mi ha insegnato in semplicità come sia possibile spezzare la catena dell’orgoglio ferito.
Penso a Norie, ricercatrice giapponese vissuta per anni a Pisa, che mi ha fatto da mediatrice culturale parlando ripetutamente, con un sorriso disarmante, del concetto di educazione e rispetto, sensibilmente diverso nei nostri paesi.
Penso ad Adriana, la mia amica ortodossa che viene dalla Romania. La sua storia difficile, tutte le energie spese per ricostruire un futuro, la speranza in una giustizia umana e divina, mi insegnano commuovendomi una dignità sconosciuta e un senso religioso profondo.
Penso a Said, il mio caro amico tunisino venuto minorenne in Italia dopo una traversata avventurosa sotto un camion. Con generosità Said mi ha reso partecipe di tante vicende dolorose e faticose della sua vita, ma sempre con un sorriso, sempre con un progetto, un sano ottimismo che tanto insegna a noi occidentali abituati a troppi privilegi. Oggi Said è un uomo maturo che crede nelle relazioni umane, impegnato seriamente nel costruire un clima di dialogo e collaborazione.
Penso a Jama, scrittore e informatico venuto dal Somiland, che parla dell’uomo e delle vicende umane con rara sensibilità mista a poesia. Jama è sempre in giro per il mondo per motivi di lavoro ma sono sempre entusiasta quando mi scrive da Dubai, Londra, New York, Parigi….raccontando in modo mai banale le sue esperienze umane e professionali. Mi aiuta a guardare da molteplici prospettive.
Penso ad Ana Maria, la mia amica della Guinea, sempre impegnata a costruire, a donare il tempo gratuitamente per i bambini della sua terra. Con il suo approccio pragmatico e i suoi racconti di vita mi ha testimoniato la distinzione fra pietismo e amore.
Penso a Bridget, meravigliosa donna del Camerum, tanto fiera e combattiva nel proteggere la sua cultura “africana”, ma sempre grata alla cultura occidentale che l’ha ospitata e fatta crescere. Bridget mi ha insegnato come non occorre essere buonisti verso le grandi sfide dell’interculturalità e che la dignità non è un bene concesso dalle “culture alte”.
Penso anche a quel bambino russo della scuola di Calci che mi ricordava nel corso di un progetto come lui prima di tutto si sentisse un pisano e dopo anche russo.
Penso agli studenti albanesi del Gruppo Milosao che mi hanno aiutato con grande generosità, pur essendo sotto esami, per il Festival che dirigo. Mentre montavamo la mostra “Donne culture e religioni” mi raccontavano con entusiasmo della loro esperienza in Italia, delle loro speranze, dei progetti professionali. Cercavano condivisione, un serio incontro, volevano mostrare “l’altro volto dell’Albania”, erano consapevoli di costruire qualcosa “insieme” e con gioia mi hanno prestato un bene particolarmente prezioso per degli studenti universitari, ovvero il tempo. 
L’elenco potrebbe essere lunghissimo, ma non renderebbe merito alla quantità e alla profondità delle relazioni di cui mi sono arricchita e all’incisività delle esperienze che si sono sedimentate.
La speranza è che si moltiplichino per tutti, soprattutto per i giovani, esperienze simili di dialogo e condivisione che ci rafforzano a esplorare la straordinaria gamma di esperienze umane senza nulla togliere ai nostri “fondamenti” che anzi ne escono rinforzati.
E’ necessario però un atteggiamento “fresco” come quello di una giovanissima ragazza di Boston che alla fermata del pullman, per spezzare l’attesa, mi raccontò del suo albero genealogico, di come avesse nel sangue il patrimonio genetico e culturale di ben dodici paesi diversi. Entrambi i genitori infatti erano nati in paesi diversi, così anche i nonni e i bisnonni. Con entusiasmo raccontò le varie migrazioni familiari, effettivamente singolari. Mi colpì molto quella chiacchierata, la sua apertura verso una sconosciuta e le tante domande che senza freni mi fece sulla mia vita, sul mio paese, sulle mie abitudini. Mi colpì molto anche il suo compiacimento e il sano orgoglio di avere un tale melange culturale alle spalle. Si sentiva onorata della sua storia. Salendo sul pullman mi salutò felice dicendo di sentirsi “cittadina del mondo”. “Ciao” mi disse. Eppure nessuno della sua famiglia era emigrato dall’Italia.

Testo di Serena Gianfaldoni